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Roman e il suo cucciolo

Uno spettacolo che entra prepotentemente nel tempo e nel luogo dell’“essere”, che ci fa sentire, in tutta la sua tragicità, quanto bisogno abbiamo di sanare quei principi morali ed etici del nostro agire quotidiano.

Non è solo “la presenza degli immigrati nella nostra vita, che ha cambiato la fisionomia delle nostre città e il tessuto delle nostre relazioni”, come afferma lo stesso regista.

Io credo che la responsabilità sia da attribuire al nostro stesso stile di vita che, con le sue enormi falle e contraddizioni, ci sta portando, così come il “pastore errante dell’Asia”, di memoria leopardiana, sempre più sul bordo del precipizio.

Una sorta di determinismo guida il destino dei protagonisti, che non si accorgono di essere avvolti da un velo, (sapientemente rappresentato da un telo che divide lo spettatore dagli attori) preludio di morte, che li attanaglia e avvolge in quel fetido e putrido stile di vita.

E come non farsi coinvolgere in prima persona?
Così come i protagonisti, anche noi, non ci accorgiamo di agire in un sistema deterministico (camuffato da libero arbitrio), in cui la morale non può aver senso, e la cui destinazione non può che coincidere con “l’abisso orrido”.
Note a margine:
Non si sentiva il bisogno di spettacolarizzare, con proiezioni filmiche, una rappresentazione teatrale in cui parola, voce, atto, scena, gesto, atmosfera sono così sapientemente armonizzati, tanto da tendere all’eccellenza.
Da semplice spettatore vorrei proprio conoscere il motivo di una così lunga attesa tra prima e seconda parte che, certo, non ha portato l’”atto” teatrale al suo pieno e totale compimento.
Ultima modifica ilGiovedì, 06 Maggio 2010 15:51
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